Raccogliere e catalogare materiali, frasi, immagini. Registrare, per frammenti, lo scorrere del tempo. E poi, ancora, tessere, con ossessione, un archivio della memoria che si metamorfosa in disegno estetico altamente autoreferenziale e, contemporaneamente, in gesto etico teso ad azionare uno screening sulle dinamiche sociali, politiche ed antropologiche dell’uomo contemporaneo e dello spazio metropolitano attuale. Sono, questi, soltanto alcuni degli ingredienti adottati da Gilbert & George per raccontare una parabola artistica che parla “al di là delle barriere delle conoscenze, direttamente alle Persone, della loro Vita”. Battitori liberi della trama scultorea contemporanea e premonitori di vivaci formule artistiche, Gilbert&George rappresentano un pensiero che fa i conti con la materia di cui è fatto il quotidiano per slabbrare, di volta in volta, i circuiti del perbenismo e alcune tematiche - la sessualità, il religioso e il politico – di non facile identificazione e classificazione. Ironici, dissacratori e fortemente liberi da congetture estetico-artistiche, gli artisti hanno percorso, sin dal 1967, anno di sodalizio artistico e di empatia riflessiva sugli statuti della scultura –lingua morta aveva apostrofato con causticità Arturo Martini–, un cammino linguistico volto non tanto a disseminare, come nei motivi poetici Fluxus, l’arte nei teatri della vita, ma piuttosto ad assurgere il vivente e il proprio cammino fisiologico ad opera d’arte. “Essere sculture viventi”, hanno suggerito gli artisti nell’autunno del 1971, “è la nostra linfa, il nostro destino, il romanzo fantastico, il disastro, la luce e la vita”. Un itinerario riflessivo, questo, che trova i primi passi già nel 1969, anno in cui il duo avvia (con Our New Sculpture) e perfeziona (con The Singing Sculpture, A Living Sculpture, Posing on Stairs, George the Cunt and Gilbert the Shit) un abbecedario linguistico (delle Magazine Sculpture) unico, fatto di selfcontrol ineccepibile, impersonalità e rilassatezza fisiognomica, amichevolezza programmata, gestualità piatta, abbigliamento elegante, impeccabile e marcatamente anglosassone. Con Jack Freak Pictures, seconda personale del duo artistico negli spazi della Galleria Alfonso Artiaco, dopo un meraviglioso preambolo che aveva conquistato (nel 1998) gli spazi del Museo di Capodimonte, Gilbert&George propongono, ora, un nuovo – inconfondibile – calibro visivo che fa i conti con andamenti biopop e con catalogazioni di atmosfere, manie socioculturali e ossessioni quotidiane. In questi nuovi lavori – tutti del 2008 – gli artisti ritraggono ancora una volta se stessi, i loro volti e i loro corpi (frammentati, sovrapposti, stravolti) immersi in paste cromatiche squillanti quasi a creare sagome transdecorative che incastrano i lineamenti degli artisti a forme e figure circolari e caleidoscopiche (come in Astrol o in Alevi), a paesaggi metropolitani disadorni e spettrali (Starwood, Homing), a vivaci e liquide cariogamie (Mulberry, Canalized), ai cromatismi esuberanti e ai lineamenti visivi dettati dalla bandiera inglese (è il caso di White Hands, United Kingdom, Jack Wheell, UK o lo straordinario Up The Wall). Contorni netti e taglienti che fanno pensare alle impostazioni visuali delle vetrate policrome che decorano le cattedrali gotiche, colore che si riscalda, negli ultimi tempi, per farsi azione riflessiva sulle tendenze visive contemporanee. Sono i nuovi stratagemmi utilizzati dagli artisti per produrre gabbie e griglie di una carta millimetrata che racconta, da sempre, un mondo in cui oggetto e soggetto si confondono per celebrare, con esuberanza e passione, il flusso plurivoco della quotidianità.
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